Prologo

Ricordo ancora la prima volta che toccai un computer. L'immagine è nitida, ed è quella di un Commodore Vic20.

Fino a quel momento, non avevo mai messo in pratica quello che avevo letto in decine di numeri della mia rivista preferita, “Input”.

Un bambino normale avrebbe digitato un load, avrebbe atteso pazientemente il caricamento di PacMan, Pitfall o DigDug dal registratore, e dopo alcuni minuti, si sarebbe messo a smanettare sul joystick. Il mio primo istinto invece, fu quello di programmare in Basic: digitare un semplice programmino e dare un run per vederne gli effetti sullo schermo del televisore.

Il Vic20 me l'aveva prestato una vicina di casa ma, in seguito, venni in possesso di un computer tutto mio. Il regalo di Natale.

Tutti avevano il mitico Commodore64, più veloce e potente del suo predecessore, che però veniva utilizzato soprattutto per giocare. C'erano un'infinità di giochi arcade per il Commodore64, copie quasi perfette dei giochi da bar; ricordo giornate intere passate a casa di amici a distruggere il joystick con Hyper Olimpic.

Io, al solito, avevo fatto il bastian contrario; il mio regalo di Natale fu un Sega SC3000, perché il computer, per me, significava studio, preparazione e programmazione.

Mi viene da ridere al pensiero che programmare, oggi, è una delle cose che odio di più; invece vent'anni fa, ero un ragazzino pieno di entusiasmo.

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Capitolo 1

È il mese di giugno del 1997 e, dopo aver lavorato un anno per una grande compagnia telefonica e sette mesi all'help-desk tecnico di una televisione privata, sono stato assunto per una mansione che, a differenza delle precedenti, non c'entra nulla con i miei studi da Ingegnere, ancora in corso e ben lungi dal definirsi terminati.

Ormai fuoricorso cronico e con una mezza idea di abbandonare l'università, il mio curriculum lavorativo risulta sicuramente più brillante di quello di studio: tredici esami su ventinove in cinque anni e mezzo, con il sesto che si sta concludendo con la sessione di esami estivi che mi vedrà ancora una volta combattere, e probabilmente soccombere, contro Fisica II per la nona volta.

È l'esame catenaccio per eccellenza, in quanto propedeutico per tutti gli esami di elettronica che mi attenderebbero negli anni futuri, ma proprio non riesco a digerirlo; odio la materia, odio il professore, odio l'esercitatore e, ogni volta che prendo in mano il libro di testo, rigorosamente fotocopiato, mi viene la nausea.

Due cose continuano a farmi insistere nella mia carriera scolastica. Anzitutto il sogno, che ho fin da bambino, di diventare Ingegnere e progettare Mazinga e, in seconda battuta, la frase citata da un film cult con il grande Tomas Milian, che mi ripete incessantemente un compagno di corso: «Chi abbandona la lotta, è 'n gran fijo de na mignotta».

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